Siamo al terzo articolo del ciclo che parte dal dibattito sui social riguardante il Quiet Quitting: la nuova tendenza della Gen Z a mettere la qualità della propria vita prima di ogni cosa, senza rinunciare al lavoro, quindi senza andarsene dalle aziende, ma facendo il minimo indispensabile per mantenerlo.
Trovate qui il primo: Formazione, motivazione e lavoro: “creare l’equilibrio”
E il secondo: Formazione, motivazione e lavoro: “prepararsi”
Cosa intendere con “motivazione”
Tutti sono spesso a caccia di motivazione, sia per se stessi quando mancano la spinta e l’attrazione al fare sia per altri, quando ci troviamo con collaboratori, familiari e amici che non si attivano e si lasciano un po’ andare.
Sopravvivere è sottovivere, come osserva Edgard Morin.
E questo sport fa male prima di tutto a chi lo pratica, oltre a diffondere stati emotivi, comportamenti e atteggiamenti “al ribasso”.
La motivazione è l’espressione dei motivi che inducono una persona a compiere o tendere verso un’azione, l’insieme di fattori dinamici che organizzano il suo comportamento verso una certa meta; poiché tutti agiamo sempre e comunque dei comportamenti, qualche tipo di motivazione è sempre presente.
Anche per continuare a non fare niente ci serve una motivazione! Semmai non sempre è adatta e sufficiente ai comportamenti scelti e ai risultati desiderati.
Questo ci fa capire che le motivazioni sono numerose: quella utile per lavorare bene probabilmente non è la stessa utile per interagire con i collaboratori o per fare le valigie quando partiamo o per far funzionare un rapporto di coppia.
Alcuni di noi aspettano sempre un input esterno, un riconoscimento, un premio, un voto per sentirsi motivati.
Col risultato che, se tarda a venire o non arriva, una motivazione di questo tipo decade rapidamente.
E con l’effetto che, dopo un po’, se il livello dell’input esterno non aumenta -un premio più importante o più frequente- la motivazione decade comunque.
Altri invece trovano dentro di sé l’input, lo stimolo e la gratificazione per l’attività e gli impegni da portare avanti, per le soluzioni da trovare, per qualcosa da creare.
L’ideale è un mix di entrambi: non possiamo dipendere solo da riconoscimenti altrui e non possiamo fidarci esclusivamente della nostra percezione.
Cosa non è motivante
L’agenzia Gallup ha realizzato uno studio, “State of the global workplace 2022 Report”, in cui è risultato che il 44% dei lavoratori sia stressato e pensa che la sua occupazione non abbia un significato profondo, solo il 21% è realmente felice delle proprie mansioni.
È importante la capacità dell’azienda di motivare e riconoscere le proprie risorse incentivandole a fare di più e meglio.
Intanto se la dirigenza e i top manager non sono motivati e coesi, significa che sono i primi a spargere demotivazione invece di costituire un esempio.
In questo modo non sarà possibile alcun risultato soddisfacente, anche perché nessuno di loro si preoccuperà e sarà in grado di rispettare e avere cura delle persone nell’azienda.
Difficilmente una persona sarà motivata da altre persone che non lo sono a loro volta.
Chi entra in casa o al lavoro sbuffando, chi è più ben disposto a uscire dal lavoro al termine dell’orario che non a entrarci all’inizio, trasmette agli altri questo genere di motivazione.
Chi sottolinea con i colleghi o con i figli la noia di certi incarichi, mentre chiede la loro collaborazione… Quali vissuti e comportamenti trasmette a colleghi e figli, quali emozioni suscita in loro e cosa loro apprendono dai fatti, e non a parole?
Cosa è motivante
Ogni scelta dell’azienda relativa all’incentivazione, per essere funzionale, deve toccare contemporaneamente sia gli elementi estrinseci che quelli intrinseci. Quindi riconoscimenti esterni e occasioni di stimolo interno.
Un’azione formativa ben costruita e ben condotta può essere motivante già di per sé.
Crea le condizioni per la soddisfazione di essere investititi della responsabilità del lavoro svolto in autonomia decisionale, di avanzare a un livello più alto dei compiti e apprendere nuove competenze per la crescita, magari anche per variare i propri compiti ed essere liberi da una routine ripetitiva; facilita le relazioni e l’interdipendenza.
Questo perché nella motivazione giocano ruoli importanti molti elementi, come i nostri valori, le nostre convinzioni, gli stati emotivi, le aspettative e le proiezioni future.
Essere motivati significa anche essere capaci di riconoscere differenze all’interno degli stati emotivi, relazionarsi con essi e gestirli.
La motivazione è sempre legata a ciò che è importante per noi: più è significativo per noi il raggiungimento di un certo traguardo, più forte sarà il desiderio di ottenerlo e maggiore sarà lo sforzo che siamo disponibili a fare.
Pertanto la motivazione è sempre connessa alla nostra personale costruzione di valori e di obiettivi: può essere sollecitata, risvegliata, suggerita e sostenuta ma non trasferita direttamente da una persona all’altra né indotta esclusivamente dall’esterno.
Siamo contemporaneamente lavoratori e professionisti, genitori, figli, parenti, sportivi, collezionisti, amanti del viaggio, in cerca di relazioni di amicizia e molto altro.
Ogni aspetto della nostra vita, ogni ruolo che vi svolgiamo, ogni capacità che possediamo ha la sua importanza.
O tutto si integra o di motivazione non se ne parla.
Se non abbiamo un’idea di noi nell’interezza e nell’interdipendenza di tutti i nostri ruoli e funzioni, anche una specifica motivazione per una specifica scelta in uno specifico campo e momento della nostra vita verrà a mancare o a non essere sufficiente.
Ci sono strumenti che aiutano a definire in quale ordine di importanza mettiamo i nostri valori e quando entrano in gioco.
E ci sono strumenti che ci aiutano a riordinare i nostri obiettivi.
Ciò ci darà il senso di quello che stiamo facendo o che dobbiamo fare; senso che potremmo aver “scordato” o “perduto” nel calderone delle routine e della fretta quotidiana.
Senso, significato e motivazione
Un potente fattore della motivazione che porta al successo è la capacità di dare un senso a quello che si fa: questa capacità dipende soprattutto da noi, anche se le occasioni esterne possono esserci d’aiuto.
Possiamo cominciare a esplorare in che modo noi contribuiamo a costruire la nostra vita personale e professionale, di quali esperienze, pensieri, emozioni, scelte e decisioni la nutriamo e come sono fatte.
La qualità delle nostre esperienze non dipende dai fatti o dalle persone “esterne”: da loro può dipendere il contenuto dell’esperienza.
Il fatto che il mio capo si comporti in un certo modo, dipende dal capo.
Il fatto che io lo consideri disponibile o scostante e che questo influisca sul mio rapporto col lavoro dipende da me.
Il nostro valore come persona non è certo definito solo dal nostro lavoro, né dal denaro posseduto, né dai riconoscimenti ottenuti, ma nemmeno dalla sola vita personale.
Come abbiamo sottolineato nel primo articolo di questo ciclo, noi siamo un insieme di aree diverse che devono stare in equilibrio tra loro.
La vita è più piena se nutriamo diversi aspetti di noi e se non la sezioniamo in parti che poi contrapponiamo: tempo libero/tempo occupato; piacere/dovere e così via.
Questo modo di recintare e di opporre porta semplicemente a impoverire la nostra vita.
Il nostro tempo è tutto e sempre occupato da qualcosa, l’importante è sapere che senso ha e come ci fa vivere e crescere ciò che sta occupando il nostro tempo.
E perché dare per scontato che il dovere sia necessariamente così spiacevole da doverlo -doverlo, anche questo è un dovere, e allora è piacevole o no?- contrapporre e scacciare?
Il centro della questione relativa al Quiet Quitting riguarda il non appassionarsi, il non accettare le sfide, il non trovare senso in ciò che si fa.
La Formazione può dare un contributo importante per invertire questa rotta.