Basta scorrere velocemente siti e proposte relative all’area della formazione e del coaching (che è solo un metodo formativo, non un’altra area a sé, alternativa alla formazione) per notare quanto spazio sia riservato alla motivazione, al committement, all’engagement, all’incentivazione di lavoratori e professionisti.
Ecco una delle sfide più attuali: collaboratori motivati.
Alla base della motivazione stanno differenti elementi: l’autostima, i propri valori, l’equilibrio tra sfera professionale e sfera personale, la chiarezza degli obiettivi propri e dell’azienda, la capacità di gestire i propri stati emotivi e di riconoscere le proprie convinzioni incoraggianti e limitanti…
Questi elementi rendono possibile a ogni lavoratore il prendersi in carico tutti gli aspetti che concernono il proprio lavoro, con una visione allargata nel tempo e nello spazio e con la capacità di riconoscere e sperimentare altri punti di vista oltre il proprio. Se ciò non accade, il lavoratore prima o poi “disinveste” il proprio impegno, tira avanti o si lancia alla ricerca di riconoscimenti esterni e di “evasione”.
Amare il proprio lavoro non è certo un dovere; probabilmente siamo soprattutto nel campo delle necessità… Perché il lavoro –qualunque lavoro- è un pezzo importante della nostra vita e dell’espressione di noi stessi, non unicamente un mezzo –gradevole o sgradito- tramite il quale ottenere denaro per le nostre necessità.
Primo Levi, in “La chiave a stella” (1978), propone alcune considerazioni in stile letterario. Il protagonista è Faussone, installatore di gru, che parla in prima persona durante una sorta di intervista.
«Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla Terra: ma questa è una verità che molti non conoscono. Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell’Antartide, e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di più, e con più clamore, proprio coloro che meno l’hanno percorsa. Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più; però esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio o altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia, ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa o sa male, o non vuole, fosse perciò stesso un uomo libero. […] L’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.»
Purtroppo ci accorgiamo che in alcune aziende e organizzazioni ci mettono del proprio, per invogliare i loro collaboratori a disinvestire; quando ciò accade (fin troppo spesso!) abbiamo di fronte il risultato di una “coproduzione” al ribasso che li coinvolge entrambi: banale, superficiale e dannoso per entrambi trovare solo all’esterno o nell’altro le cause della demotivazione.
La motivazione ha bisogno anche di riconoscimenti, lungo la sua strada, ma deve partire sempre dall’interno di ciascuno di noi, se siamo veramente interessati alla nostra crescita e alla nostra vita.
Possiamo cominciare a esplorare in che modo noi contribuiamo a costruire la nostra vita personale e professionale, di quali esperienze, pensieri, emozioni, scelte e decisioni la nutriamo e come sono fatte. La qualità delle nostre esperienze, cioè se le considereremo soddisfacenti o meno, non dipende dai fatti o dalle persone “esterne”: da loro può dipendere il contenuto dell’esperienza. Il fatto che il mio capo si comporti in un certo modo, dipende dal capo. Il fatto che io lo consideri disponibile o scostante e che questo influisca sul mio rapporto col lavoro dipende da me.
Tutto questo ci porta ad alcune considerazioni:
La motivazione non è trasferibile da uno all’altro o prescrivibile tramite una furba e mirata azione di coaching. Va coltivata, riconoscendo e sviluppando tutte le aree che la compongono.
Preferiamo una scorciatoia perché “non abbiamo tempo da perdere in queste stupidaggini!”? E quanto tempo e qualità di vita lavorativa e personale perdiamo grazie a una motivazione debole e incerta?
La motivazione coinvolge contemporaneamente tutte le sfere della nostra vita: chi non è motivato nel lavoro, ben difficilmente saprà motivarsi nelle altre aree… Motivato lo sarà, probabilmente, nel cercare evasione. Scappo dall’impegno del lavoro (o di altro…), evado, vado via da lì…già, ma per andare verso dove? E per sapere che sono via da (…il lavoro, per esempio) devo sempre ricordarmelo (il lavoro…), altrimenti come faccio a sapere che ne sono fuori?
Insomma, ci occorre equilibrio nella nostra vita personale e professionale. L’equilibrio si trova con ricerca, impegno e sforzo e con la partecipazione ad attività formative che facciano capo a una formazione sostenibile.