Capitale umano ed intelligenza artificiale
Sottovalutare una tecnologia è un errore quanto sopravvalutarla: da ciò che ha dato all’uomo la possibilità di accendere il fuoco alle più complesse e sofisticate tecnologie digitali, noi esseri umani ci siamo trovati spesso a gestire il rapporto con qualcosa di nuovo, di rivoluzionario, che dipendeva da noi e contemporaneamente andava oltre noi stessi, la nostra cultura, il nostro tempo e che ci richiedeva un cambio di passo e di modalità di pensiero. Pensate alla scoperta dell’America: avvenuta in tempi tutto sommato brevi, ha richiesto ben più di un centinaio d’anni per ripensare le carte geografiche, l’economia, la politica, il pensiero, la cultura, la religione, le convinzioni…
Si tende spesso a parlare di intelligenza artificiale in termini che forse starebbero meglio nei romanzi di fantascienza, ad odiarla, ad amarla, a crederla infallibile o minacciosa. Ed è almeno in parte comprensibile che proiettiamo sull’intelligenza artificiale l’aspettativa che evolva come il pensiero umano. In realtà non è pensiero umano, non è di meno e non è di più: ne è una simulazione. Si basa su reti neurali e algoritmi che servono a confrontare grandi quantità di dati per estrarne conoscenza e persino prendere decisioni, all’interno di certe logiche codificate: il che avviene in finanza, quotidianamente, ma sempre più spesso si usa nella cybersicurezza, nel servizio ai clienti, nell’amministrazione, nella gestione degli archivi ed in moltissime altre attività. E in alcuni casi queste performance colpiscono la fantasia, per la quantità di dati processati e la velocità con cui ciò avviene.
Ma l’intelligenza artificiale non evolve autonomamente dagli umani, è solo il frutto dei loro progetti.
I computer non imparano da soli a riconoscere i concetti con accuratezza se prima non sono “andati a scuola”. E la qualità di quello che imparano dipende dalla qualità dei loro maestri, esattamente come per tutti noi. Maestri umani.
Il capitale umano è dunque essenziale: su questo non ci sono mai stati dubbi. Ma il punto di partenza deve essere chiaro: le macchine funzionano sulla base di programmi scritti da umani e operano in contesti definiti da scelte umane. Il futuro non è un destino ma un progetto.
La storia delle macchine infallibili, inesorabilmente destinate a prendere il posto degli umani, fuori dai romanzi di fantascienza, non è credibile. Il lavoro del futuro non è l’invasione degli automi: è la convivenza, talvolta difficile, di umani e macchine con i loro pregi e difetti. Si tratta di un sistema: spesso pensiamo in termini limitanti e contrappositivi (o uomo o macchina; uomo contro macchina). In realtà il nostro è un sistema misto e complesso: e uomo e macchina, in co-dipendenza e in co-evoluzione.
È una sfida trasformativa per le direzioni che un tempo bastava chiamare “delle risorse umane”. Come si investe nelle macchine si deve a maggior ragione investire nelle persone, sentire il loro livello di coinvolgimento: il rapporto col capo, il significato che si riesce a dare al proprio lavoro, la comprensione di dove stia andando l’azienda, la possibilità di sentirsi supportati, riconosciuti e apprezzati.
Non tanto in chiave individualistica, quanto nei contesti di relazione, nei lavori di squadra, nelle reti sociali, nei progetti collaborativi sono necessarie armoniche mescolanze di specializzazioni tecniche e capacità relazionali e personali, assieme a quelle di lettura attiva e sistemica del contesto e delle relazioni stesse.
La persona al centro
Il lavoro del futuro sembra fatto per essere svolto da persone che abbiano insieme qualità umanistiche e tecniche e anche coloro che cercano quelle persone (direzioni risorse umane e società di ricerca e selezione del personale) devono coltivare lo stesso inedito mix di competenze.
Infinite ricerche dimostrano che c’è una relazione forte tra il senso di appartenenza delle persone e l’efficienza aziendale. Che un’azienda funzioni bene, sia redditizia e utile è certo importante, ma quanto impattano senso di appartenenza e clima serenamente collaborativo sulla vita complessiva delle persone? Ciascuno di noi ha una sola vita, che è personale e professionale contemporaneamente; separarle può eventualmente essere utile solo in sede di analisi.
Noi vediamo quotidianamente nel nostro lavoro la differenza, quella di un circolo virtuoso o vizioso, in cui vita personale e vita aziendale si alimentano reciprocamente, nel bene o nel male.
Allora, da dove cominciare, per avere circoli virtuosi? Dall’azienda o dalla vita personale? Da nessuna delle due: occorre cominciare dalla persona, che è contemporaneamente familiare, amica, compagna di sport e di viaggi, vicina di casa, lavoratore e professionista. Tutto assieme! Nesta, il centro di ricerche britannico, ha pubblicato una ricerca sulle competenze richieste dal lavoro del futuro (“The future of skills. Employment in 2030”) che dimostra in modo chiarissimo come servano skills specialistiche, che hanno un ciclo breve di crescita e declino, e competenze personali come capacità relazionali, autonomia e orientamento a imparare da ogni esperienza, che invece si sviluppano nel lungo termine.
E proprio perché il loro sviluppo è a lungo termine, non possono essere appiccicate tramite pillole formative che dicono cosa bisogna fare o spiegano qualche tecnica miracolosa, ma richiedono un lavoro costante e misurato nel quale la persona sia coinvolta nella sua totalità e abbia la possibilità, il tempo e il metodo per sperimentare ed apprendere, secondo modelli semplici, tutt’altro che banali e scontati. Si può arrivare fino a esplorare e riconoscere il proprio modello del mondo, per esempio. Quanto mi reputo in grado di influire sulle situazioni e quanto me ne considero dipendente senza margini d’azione? Quindi vivo nell’area degli effetti o delle cause? Aspetto che accada qualcosa di buono o scelgo in base alle opzioni che ho? E quanto/come valuto che quelle che ho a disposizione siano opzioni? In che modo contribuisco a creare la situazione così com’è, con ciò che faccio e penso e anche con ciò che non faccio e non penso? Pensare per sistemi ampi crea armonia, coesistenza e benessere.
Recentemente il Dalai Lama ha proposto ai giovani di ribellarsi al lasciar decadere l’ecologia del nostro pianeta, consigliando loro di scegliere attivamente modalità di vita e di pensiero che coltivino cura, attenzione e rispetto per l’ambiente in cui viviamo. Ambiente che comprende le persone. Può esistere un business, possono essere operate scelte e prese decisioni malgrado la Terra e Noi che la abitiamo? La Terra in qualche modo se la caverà comunque. Ma noi?
Perché sia veramente capitale, deve essere veramente umano.
Articolo a cura di Vincenzo Palma e Ileana Moretti