Reddito di cittadinanza: aspetti positivi e perplessità
Fumata nera per il decreto sul reddito di cittadinanza che avrebbe dovuto essere licenziato ieri dal Consiglio dei ministri e che invece resta appeso al gioco dei veti incrociati tra i due azionisti del governo giallo verde a guida Giuseppe Conte.
In attesa della versione definitiva vale la pena comunque abbozzare un primo commento alla bozza che ha circolato in questi giorni, bozza che definisce, almeno nella sostanza, l’impostazione di fondo che dovrebbe avere il decreto relativo all’attuazione del reddito di cittadinanza.
Il reddito di cittadinanza assume sempre di più l’aspetto di un reddito di inclusione potenziato nella dotazione finanziaria e maggiormente orientato al lavoro rispetto al REI del governo Gentiloni.
Il testo ha alcuni elementi di sicuro interesse, primo tra tutti il tentativo di ragionare in termini di politiche integrate e di sistema: da un lato mette assieme politiche di inclusione e di riduzione delle disuguaglianze attraverso una redistribuzione delle ricchezze alimentata dal prelievo fiscale, dall’altra punta sulla necessità di mettere in rete i diversi attori potenziali in grado di ridistribuire opportunità lavorative, compresi i fondi interprofessionali che si occupano di formazione finanziata per gli occupati e gli enti bilaterali.
Altro elemento nuovo è l’attenzione esplicita alla necessità di generare un sistema di condivisione dei dati oggi in possesso di enti diversi che non si parlano fra loro. Nella società della conoscenza, dei big data e della comunicazione è impensabile un politica di sistema efficace senza un robusto sistema di condivisione dei dati o senza una amministrazione in grado di gestire a complessità delle misure ideate.
Da questo punto di vista intervenire sui Centri per l’impiego e sulla gestione dei dati risulta una questione non più rinviabile. Ed il Navigator, una sorta di mentore che assiste chi percepisce l’assegno e di cui si parla con insistenza in questi giorni, potrebbe essere una figura chiave nella gestione del processo di inclusione cui si fa riferimento nella bozza di decreto disponibile.
Esistono poi una serie di aspetti, non solo tecnici, sui quali sarebbe utile un approfondimento ulteriore.
Prima fra tutte l’idea che l’inserimento nel mercato del lavoro debba essere perseguito, nel caso di lavoro subordinato, attraverso contratti di lungo periodo e a tempo indeterminato.
Il mercato del lavoro sembra seguire dinamiche differenti.
Il lavoro diventa sempre più smart e a progetto, ed è difficile immaginare disoccupati di lungo corso o soggetti svantaggiati assunti da aziende con contratto a tempo indeterminato a fronte di incentivi decisamente modesti. Del resto il governo va in continuità con l’ispirazione del decreto dignità che per certi aspetti ingessa un mercato del lavoro che in Italia si mantiene fragile e sempre più orientato su profili e competenze molto basse.
Le politiche del lavoro hanno bisogno della crescita, altrimenti sono politiche di inclusione. Un Paese in stagnazione difficilmente può generare nuovo lavoro. Le politiche di inclusione lavorativa oggi sono politiche che agiscono sui flussi che movimentano il mercato del lavoro, quindi devono agire su meccanismi di accesso che riattivano i lavoratori, attraverso sistemi di incentivi alle imprese e contratti a tempo determinato.
Gli altri aspetti sui quali l’esecutivo farebbe bene a riflettere con attenzione consistono nei tempi tecnici con cui le nuove misure possono diventare efficaci nel contrastare la debolezza del sistema amministrativo, in particolare in alcune realtà locali, per la gestione di una misura che si preannuncia complessa e estremamente burocratica, a partire proprio dai centri per l’impiego.
Sullo sfondo infine alcune perplessità sull’impostazione che il decreto sembra voler assumere.
Le politiche per il lavoro e le politiche per l’inclusione sono cose diverse, così come cose i concetti di occupazione con quelli di “occupabilità”. In altri termini i Centri per l’impiego non sono più da anni gli uffici per il collocamento.
Il concetto di occupabilità prevede che la persona debba essere portata ad essere occupabile, cioè appetibile per le aziende che gli pagheranno lo stipendio, o in grado di stare sul mercato se deciderà di avviare un percorso imprenditoriale. Una volta occupabile il lavoratore può essere assistito nella ricerca di una occupazione, ma in generale oggi le politiche attive per il lavoro si orientano soprattutto sul potenziamento del soggetto preso in carico.
Il collocamento è la fine di un processo complesso irriducibile alla sola idea del “trovare un lavoro”.
Da questo punto di vista il reddito di cittadinanza non sembra essere una misura di politica attiva per il lavoro, ma un reddito di inclusione, al di là del fatto che un Paese in cui le disuguaglianze nella ridistribuzione delle risorse stanno diventando strutturali può aver o meno bisogno di uno strumento simile. La possibilità che un reddito di inclusione orientato in parte all’inclusione attraverso il lavoro possa essere efficace senza una politica per la crescita è frutto di una scommessa molto azzardata, in particolare ala luce delle differenze tra le diverse realtà regionali del paese.
Nel testo poi ci sono alcuni aspetti interessanti, tra cui l’idea che l’autoimpiego sia una via per l’inclusione nel mercato del lavoro con uguale dignità rispetto a quella del lavoro dipendente.
E ancora, aspetto che ci interessa molto per evidenti ragioni di parte, la formazione resta uno dei pilastri per le politiche del lavoro. L’inserimento dei fondi interprofessionali tra i soggetti che partecipano alla gestione del RdC, almeno stando a quanto si legge oggi, e della formazione tra le condizionalità previste nella concessione dell’assegno, rende esplicita la funzione dei percorsi formativi nell’ambito dei sistemi di politiche di inclusione lavorativa. Il fatto, non del tutto inaspettato, che il decreto inserisca i fondi interprofessionali tra gli operatori, senza precisarne la funzione, ha un suo fascino per gli operatori della formazione, perché estende la capacità di azione di uno strumento che da sempre è cruciale nelle politiche di sviluppo di un sistema economico e produttivo che deve innovare ed aumentare il proprio capitale sociale.
Rinvia inoltre agli interventi urgenti di manutenzione ordinaria e straordinaria di cui il sistema avrebbe bisogno. La formazione oggi non è accessibile a tutti i lavoratori, non dispone di fondi adeguati e di processi efficienti. Non viene pensata quasi mai come lo strumento a disposizione di imprese e lavoratori decisivo per la crescita dell’intero sistema Paese. Non viene valutata per la qualità dell’offerta o per l’impatto che produce, ma solo da un punto di vista quantitativo.
Ragionare in termini di contesto e di rete sembra oggi la via migliore per ricominciare a parlare di formazione come parte integrata di sistemi più ampi e complessi che non possono prescindere dalla condivisione delle risorse di ciascuna parte.